L’amico d’infanzia
L'amico d'infanzia del motociclista che aveva perso la vita nel pauroso incidente in prossimità di R. e del quale i quotidiani locali per giorni avevano dato ampio risalto, apprese la notizia dalla viva voce di una comune amica soltanto tre mesi più tardi. La comune amica non mancò di descrivere in maniera dettagliata tanto la dinamica dell'incidente, quanto il particolare raccapricciante della testa che, staccatasi dal tronco a causa dell'impatto, aveva terminato il suo volo tra le acque del golfo da dove venne ripescata soltanto tre giorni più tardi. La notizia lo sconvolse a tal punto da non riuscire a restare in piedi e si vide costretto ad appoggiarsi al bancone del bar nel quale casualmente aveva incontrato la donna. L'amico sfracellatosi era stato per lui, nel periodo della prima infanzia e poi via via negli anni successivi, quasi un fratello, anche se in seguito, come spesso accade, le loro strade si erano divise e i loro incontri, le loro, come le definivano, rimpatriate, si erano ridotte progressivamente fino a sparire quasi del tutto. Riavutosi dalla prima dolorosa sensazione di gelo che la notizia datagli a bruciapelo gli aveva causato, riferì alla comune amica che la settimana successiva, dal momento che per motivi di lavoro si sarebbe trovato a passare proprio dalle parti di R., dove la famiglia aveva voluto seppellire il loro amico, non avrebbe assolutamente mancato di recarsi al cimitero.
Arrivato nei pressi di R, dopo aver reso omaggio all'amico sepolto, colto da curiosità, volle sapere con esattezza dove l'incidente fosse avvenuto e si diresse verso l'unico bar del paese, fonte sicura, si disse, di informazioni e notizie, ma i pochi avventori, che dell'incidente rammentavano con precisione soltanto il particolare raccappricciante della testa volata nelle acque del golfo, non seppero indicargli che una vaga e imprecisa zona della strada costiera a qualche chilometro di distanza, non mancando però di fargli presente che sicuramente sul luogo del tragico fatto ci sarebbe stato senza dubbio un mazzo di fiori di plastica depositato dalla madre in lacrime.
Dopo un'inutile ricerca e lunghe riflessioni sulla caducità dell'esistenza umana, l'amico d'infanzia del motociclista che aveva perso la vita, desistette ripromettendosi di tornare di lì a qualche mese, dove avrebbe certamente avuto più fortuna, sapendo per certo che nel tardo autunno soltanto i fiori di plastica non marciscono, né lì, in quella che fieramente veniva definita dagli abitanti del posto "Riviera Fiorita", né altrove.
A proposito di finali e televisori usati
Me ne stavo seduto al mio tavolo da lavoro. Nello studio. O laboratorio. A casa mia. Saranno state le dieci e trenta, le undici di mattina quando squilla il telefono. Pur se impedito nei movimenti dal saldatore e dal filo di stagno che stringo tra le dita, bestemmiando mi allungo e afferro la cornetta. Un gesto che ripeto più volte al giorno e col quale mi trovo ormai perfettamente a mio agio. La bestemmia non è uno sfogo rivolto all'inutilità degli umani (miei in particolare) sforzi, ma fa parte della coreografia, come l'urlo per chi butta la palla in rete. Mi spiego? Ci sta bene! Ed è perfettamente al suo posto nel mio studio/laboratorio/abitazione, come le mille altre prove della mia vitale attività. Ad esempio il diploma alla parete che non ha il tempo di ingiallire. Lo pulisco e me lo liscio ogni santo giorno. La prova tangibile della mia abilità. Oppure il mio bianco camice schizzato da puntine d'acido e da bruciacchiature di saldature e di sigarette. O ancora le valvole, ormai diventate semplici soprammobili, ma alle quali non saprei più rinunciare. Compagne d'infanzia. Vi ho staccato amorevolmente da vecchi apparecchi inservibili con le lacrime agli occhi, ma erano altri tempi. Riuscivo ancora a commuovermi allora. Ai tempi della decisione. Pal o Secam? E rinunciare alla malizia del bianco e nero e alle vellutate forme bluastre degli schermi di allora. Ero giovane e gonfio d'orgoglio, come un tacchino imbottito e mi apprestavo ad intraprendere la più nobile delle professioni. Ci credevo allora, e anche adesso... forse un po’ più tiepidamente... con meno intensità, ma ci credo ancora, che diavolo!
Intanto il tempo passa ed io sto qui a perdermi dietro a sogni divenuti ormai fiabe per maiali, mentre il tempo divora lo stagno e il calore brucia le resistenze. Tagliamo corto!
Squilla il telefono. E fin qui ci siamo. Alzo la cornetta con difficoltà, il saldatore, ricordate? Bene! Una voce di donna, ma angosciata, senza speranza. Piange. E tra una lacrima e un singhiozzo alcune parole appena appena comprensibili: "televisione" "Improvvisamente" "Marito" "Partita" "Questa sera" Io le faccio - signora, la prego!.. si calmi! Non si preoccupi! Mi descriva tutto con calma - una parola! Non sente ragione. Continua a singhiozzare. Sento che tira su col naso, ma niente da fare. Non trova modo di spiegarsi. A fatica riesco almeno a farmi dare l'indirizzo. In realtà... al diavolo! al diavolo il lavoro precedente! Come resistere a un simile e disperato bisogno d'aiuto? E il giuramento di Schermocrate? Dove lo mettiamo?
Afferro la mia valigetta dai mille scomparti, la apro, controllo che ci sia tutto, che niente manchi all'appello. Con una morbida pressione delle dita la richiudo. Un clic soave risponde al mio gesto. Ci siamo! Non manca niente. Come niente!? Con un abile volteggio mi tolgo di dosso il camice. Vado all'armadietto lucente, lo apro. All'interno una fila di bianche e immacolate copie del precedente mi osservano con apprensione. Ne afferro una qualsiasi. Sono tutte perfettamente a posto. Riapro la valigetta con la solita morbida pressione e ci infilo poi il camice ben ripiegato al suo interno. Un altro soave clic mi avvisa della chiusura. A posto. Mi guardo allo specchio. Un bell'uomo, ancora un bell'uomo, niente da dire. Un sorriso allo specchio e via. Di corsa!
Il Suv mi attende all'esterno. La mia professione, ma soprattutto l'adesivo rosso fiammante punteggiato da macchioline verdi con lo splendente simbolo del tubo catodico, testimone muto di chi trasporta la vettura, mi permette di usare la corsia preferenziale. In pochi minuti sono all'indirizzo. Scendo dalla macchina e alzo il capo. Un palazzone grigio di quindici piani (lo so, perché li ho contati) svetta imbambolato al sole di giugno. Volti curiosi si affacciano alle finestre. Come mi avvicino all'ascensore una vecchia si scosta segnandosi con le dita. E vattene a messa, vecchia troia! Durante la salita approfitto dello specchio e tra un pisello disegnato con lo spray e un "Teresa puttana" col relativo numero di telefono, faccio in tempo a ravvivarmi i capelli. Non riesco ad uscire dall'ascensore che subito mi sento assalire da sospiri e gridolini di gioia di bambini (non lo so, perché non li ho contati). Entro di prepotenza nell'appartamento. La donna con lo sguardo implorante mi conduce allo schermo. Un modesto apparecchio a colori mi osserva con lo sguardo triste. Ha i giorni contati, lo capisco dalla prima occhiata (la mia). Lei, la donna, parla parla, non la vuole smettere. Io con accondiscendenza annuisco. Mica la sto a sentire, macché! E poi... sempre le stesse frasi, sempre le stesse. La faccio uscire. Con cortesia, s'intende, ma anche con fermezza. L'accompagno di là. Mai impietosirsi. Regola numero uno.
Mi avvicino allo schermo. Guardo con disgusto l'orrendo soprammobile poggiato sulle sue stanche ossa e lo levo. Apro la valigetta con la solita e ben collaudata pressione delle dita e infilo l'immacolato camice. Tolgo le sei viti a croce che assemblano la struttura esterna. Modello antico... hm! viti di marca imprecisata, non importa. Ne hai vista di roba tu, eh? Sei vecchio ma di nobile origine. Non più di quattro anni, comunque. Afferro il tester. Provo due tre contatti... niente! Entro allora con la testa e controllo il cinescopio... niente! Forse il selettore dei canali... macché! Ci sono! E' il trasformatore di uscita della scansione verticale... no! Disperato mi metto a piangere, roba di un attimo. Passa subito. Asciugo le lacrime col dorso del camice e mi rimetto al lavoro. Mi butto con disperazione sulla bobina di deflessione. Niente! Niente! Ma, un momento. Va' a sapere delle volte... saranno mica i fusibili? Tolgo la scatolina relativa e ne estraggo uno. Proprio così! Eh, maledetto, ma a me non la fai!
Per farla breve lo sostituisco. Richiudo la struttura, infilo dentro la valigetta tester e camice. Mi asciugo il sudore con un morbido fazzolettino profumato e chiamo la donna. Lei entra di corsa e dopo un rapido sguardo allo schermo si volta verso di me. Io annuisco sorridendo. Lei mi salta al collo e in un impeto di gioia mi abbraccia e mi bacia ringraziandomi. I bambini dietro spingono per abbracciarmi a loro volta. E' tutto uno sdilinquimento, ma... lo confesso... e come non essere soddisfatti? Lei mi offre un caffè. Lo appoggia timidamente sul tavolo e sotto al piattino, con discrezione, ci infila il contante. forse già mi ama, ma si trattiene. Ci sono i bambini. Ora avrei esaurito il mio compito ma lei vuole sapere... sapere... quanto potrà ancora durare? Allora io mi faccio serio - E' un modello vecchio, mia cara signora... sarebbe pure ora di sostituirlo no? Al proposito io avrei... - ma lei non mi sta ad ascoltare, una lacrima le scende lentamente. E vuole raccontare. Giustificarsi quasi - non avrei dovuto accenderla – dice, ma stamattina davano la replica della sua amatissima soapteleoperanovela "miseria e meschinità dei poveri d'oggi", nella quale l'odiatissimo Fred ruba un minischermo a cristalli liquidi dalla Rover del simpatico Billy, mentre quest'ultimo lo stava portando in regalo al figlioletto al maneggio estivo. Insomma, in poche parole, lei si era persa la battuta di commiato di Billy la sera prima e allora... nella fretta...
Io capisco capisco, e come non potrei? Del resto stasera... la finale. Sto pensando al marito. Tutto il giorno a rompersi il culo in quella maledetta fabbrica di transistors. Maledizione!.. e stasera c'è la finale! Se la merita, povero cristo.
Saluto la donna che non la smette di ringraziarmi. La scosto cortesemente ma con decisione. Faccio rialzare con un calcetto uno dei marmocchi che si era messo ad armeggiare con la serratura della mia valigetta. Mi richiudo la porta dell’ascensore alle spalle. Finalmente fuori. Il sole sta calando. In queste serate invernali il sole tramonta quasi improvvisamente. Mi guardo attorno. Il mio Suv è parcheggiato qui davanti. Alzo gli occhi al cielo. Buio ormai. Scendo con lo sguardo. Palazzoni davanti. Anche alle spalle. Palazzoni dappertutto. Ne sono letteralmente circondato. È la mia città, questa. File di grigi parallelepipedi a perdita d’occhio. E da ogni singola finestra di ogni singolo parallelepipedo un bagliore luminescente grigio-azzurrino viene spruzzato all’esterno, dove, fondendosi con gli altri, si scioglie in una palpabile opacità che cresce di minuto in minuto e si trasforma in una densa coltre. Salgo in macchina, mi accendo una sigaretta, giro la chiavetta e dopo aver azionato i fari antinebbia infilo la prima e vado.