Rigore

Uno psichiatra, perito del tribunale di Trieste, si deve pronunciare sulle sorti di Jakob K., che in seguito ai traumi psicologici subiti nell’infanzia e a un tentativo di suicidio compiuto anni prima che gli è costato la perdita dell’uso delle gambe, vive rinchiuso nella villa di famiglia. Una sorta di isolamento autoimposto che Jakob ha trasformato in un continuo e regolare susseguirsi di interazioni con la musica e di riflessioni filosofiche. Durante l’ultimo incontro Jakob, in un lungo monologo, a volte delirante, a volte lucido, svela come nel corso del tempo il suo tentativo di creazione della cosiddetta Opera Assoluta (un lavoro come dice lui matematico-musical-filosofico), si sia trasformato in una profonda ricerca del riempimento di un abisso, di una ricomposizione dell’individuo scisso in una personalità unitaria attraverso l’espediente della ripetizione costante e rigorosa di gesti e movimenti interpretati come l’unica possibilità di mantenimento dell’esistenza

Introduzione

È un freddo giovedì d’inverno e anche se il sole compare a tratti tra gli squarci di quelle nuvole che la  bora impetuosamente nel suo soffiare senza sosta distrugge e riforma creando in quei brevi istanti una misera parvenza di calore, questa non è sufficiente, questa non mi basta, così non riesco a staccarmi di dosso il gelo che come un mantello mi pesa sulle spalle e penetra attraverso i pori della pelle fin dentro, nel profondo, dove si annida quella che alcuni chiamano anima e altri più semplicemente definiscono coscienza. Questa sensazione di gelo compare costantemente con rigorosa precisione ogni giovedì mattina nell’avvicinarmi in quella che Jakob K. afferma essere una tomba, ma che in realtà altro non è che la villa dove lui trascorre ormai interamente le sue giornate, dedicandosi, per usare le sue parole, alla riflessione filosofica e all’interazione con la musica. Il rigoroso uso del registratore e la successiva trascrizione dei risultati di questi incontri è, ormai per me, oltre che una pratica costante imposta dal mio lavoro, un’ossessione alla quale non sarei più in grado di rinunciare e anche se questo molto spesso rischia di farmi precipitare in una voragine senza ritorno, il bisogno è più forte di qualsiasi timore.
Dal giorno del rientro in quella che è stata la residenza dei suoi genitori, oltreché per lunghissimi periodi la sua, Jakob K. ha evitato costantemente qualsiasi contatto umano, esclusi ovviamente quelli strettamente necessari, quelli, come li definisce, fondamentali per la propria sopravvivenza. Con ciò, Jakob K. si riferisce al fratello di suo padre e alla governante, Stefy, che lo accudisce e lo cura con un amore e un trasporto al di là di ogni logica, assecondando le sue follie con una devozione da risultare oltremodo insana. L’unico altro contatto che Jakob K. ha con l’esterno, il sottile filo che lo lega al mondo dei vivi, è la mia presenza regolare del giovedì mattina. Presenza che sono riuscito a rendere costante dopo settimane di richieste insistenti, di pressioni alle quali a volte sembrava cedere per qualche istante per poi negare subito dopo di averlo fatto. Non sapevo come avrebbe reagito a questa intrusione, non potevo immaginare se la sua reazione sarebbe stata tranquilla o se si sarebbe rinchiuso invece in un mutismo angosciante del quale conservo ancora memoria e che all’inizio mi aveva quasi fatto desistere. Sarebbe potuto scoppiare in uno dei suoi deliranti flussi di frasi sconnesse e di parole a prima vista senza senso alcuno, ma in realtà molto lucide, di una lucidità talmente prepotente da risultare inizialmente deliranti. La preparazione a questi incontri del tutto nuovi del giovedì è stata organizzata con cura quasi maniacale da parte mia, non lasciando niente d’intentato affinché potessero trasformarsi in uno spiraglio di luce. Oggi si compie un passo molto importante, forse fondamentale, per le sorti di Jakob K. In seguito dovrò redigere una perizia. Le innumerevoli proprietà che Jakob K. ha ereditato rischiano di finire totalmente e definitivamente nelle mani di quello che potrebbe a tutti gli effetti finire col ricoprire il ruolo di tutore, suo zio.

recensioni

 

Percepire il peso angosciante
di non essere valso a niente

di Antonio D'Angelo
Edito da Echos, nel romanzo di Diego Kriščák
si manifesta l’abisso di un uomo tradito dalla vita

Fino a che punto è lecito vivere e assecondare le nostre ossessioni? Dove risiede la nostra volontà di affrontare le asperità che quotidianamente la vita ci pone davanti? Perché inseguiamo un sogno piuttosto che un altro?
La vicenda di Jacob K. spinge il lettore a porsi queste e altre domande e, avendone il coraggio, provare a rispondervi.
Il protagonista della storia narrata in Rigore (Echos edizioni, pp. 96, € 13,00) di Diego Kriščák, è un uomo che vive sospeso, immobile, insanamente incastonato in un susseguirsi di psicosi e di ricordi struggenti che, a posteriori, assumeranno sempre più la parvenza di un copione che altri hanno scritto per lui.
Nulla nella sua vita lo potrebbe oggi distogliere dalle sue riflessioni filosofiche, dalla sua maniaca e ripetitiva quotidianità fatta di musica e gesti che ripete ossessivamente, dal giudizio del suo passato che così prepotentemente lo ha portato fin lì, dalla convinzione che tutta la sua esistenza sia stata fittizia e in balia delle scelte e delle volontà altrui, non vi è in lui ormai che la consapevolezza di non avere più niente da cercare, da scoprire o da vivere e ciò che è peggio di non averne mai avuto davvero la possibilità.
Teatro di questa storia è la casa triestina appartenuta ai genitori del protagonista, il promontorio su cui è situata permette di ammirare la natura che ignara del contesto in cui si manifesta prosegue nel suo incessante movimento che sia ora un tramonto, ora il frenetico rincorrersi di due scoiattoli che si arrampicano su di un pino, oltre il quale, la linea dell’orizzonte si staglia lontano. Nella sala dall’ampia vetrata si svolgono ogni giovedì mattina i colloqui cui Jacob K. si deve sottoporre settimanalmente con il suo psichiatra, il dottor Schwarzkopf.
Sarà quest'ultimo a doverlo giudicare, ascoltare la sua storia e infine decidere quale dovrà essere il suo destino in un mondo che ormai non gli appartiene più e al quale da tempo più non partecipa.

Il palcoscenico familiare
Le vicissitudini e le relative considerazioni che Jacob racconta al suo interlocutore muovono i primi passi proprio in quel salone che oggi ospita i due uomini, fin quando da bambino le sue mani rivelarono una sensibilità che solo i pianisti possiedono.
A notare e alimentare il suo talento è la madre, che avendo alle spalle la medesima virtù, immagina e pianifica per il figlio una vita all’insegna del raggiungimento della produzione di un’opera assoluta, colossale, un lavoro matematico-musical-filosofico, che lo avrebbe consacrato nell'Olimpo dei grandi compositori e musicisti di ogni tempo.
Fin da piccolo, le esaltanti esibizioni di Jacob vissute nella stessa casa che oggi a distanza di anni lo vede inerte e appassito, sono delle soirée che raccolgono il meglio della nomenclatura artistica e culturale di Trieste.
Eppure, una volta ragazzo, inizia a formarsi in lui la necessità di allontanarsi da quel contesto, da quelle serate da lui considerate in fondo mediocri e frutto dell'autocompiacimento dei presenti.
Sarà Vienna ad accoglierlo, e dove altrimenti. La dedizione di Jacob per il pianoforte e per questo progetto è massima, totale, non c'è spazio per nessun'altra esperienza, nessun'altra intenzione, se non il rigore con il quale riempiva i suoi quaderni color antracite perfettamente catalogati secondo il suo personale sistema, il rigore dei suoi studi e del percorrere la strada che lo avrebbe forse un giorno portato così, a compiere quello che allora credeva essere il suo magnifico destino.

Sogni infranti
Oggi la sua anima è lacerata, dilaniata dal pensiero di essere stato niente più che una protesi della vita incompiuta di sua madre e il risultato delle umane meschinità di un padre che mettendolo al mondo, ne aveva sacrificato l'esistenza, al fine di salvare il suo stesso matrimonio.
La profonda convinzione di essere stato solo un passeggero all'interno della sua storia, lo annichilisce, lo strazia e consegna lui una parabola che lo condurrà anni addietro verso scelte irreparabili e definitive, scelte che, dopo la morte di entrambi i genitori, lo getteranno in un universo di congetture, lucidi deliri e ossessive ripetizioni comportamentali oggetto oggi delle analisi del dottor Schwarzkopf.
Le sue riflessioni lo portano a essere sia oggetto che soggetto delle sue osservazioni, in una ferale danza che lo stringe come una morsa e dalla quale non riesce a uscire, nel mezzo di una continua lotta che a poco a poco lo avrebbe consumato.
Le giornate di Jacob. K, ad anni di distanza dalla morte dei suoi genitori, sono accompagnate dalla figura di una governate, Stefy, della quale egli non esita a criticarne acidamente le caratteristiche fisiche e le mansioni che svolge amorevolmente, chiuso nelle sue elucubrazioni e privo di qualsiasi forza d'animo che gli permetta di vivere qualsiasi soffio di vita, fino a spingere lo zio paterno, ultima presenza dei suoi legami familiari a richiedere una perizia psichiatrica volta a verificare la sua capacità di gestire le proprietà ereditate.

Fiumi di parole
Un romanzo fitto e denso e di certo non banale. Affondare con il protagonista nelle sue idee, attraverso gli occhi dello psichiatra e il flusso di coscienza di Jacob K., che oggi si ritrova lì, fermo, perso nella sua follia, ci esorta a vivere pienamente le nostre esistenze e a fare attenzione a chi e a che cosa lasciamo determinare le nostre scelte e le nostre decisioni, ci ricorda di non scivolare nella mera esistenza, condizione tanto comoda e confortante quanto pericolosa e ricca di insidie. Vale quindi la pena di provare a essere per quanto possibile padroni del nostro destino. Per aspera, ad astra.

Antonio D'Angelo
(www.bottegascriptamanent.it, anno XVIII, n. 202, luglio-agosto 2024)



 

 

Jacob K. è l'involontario protagonista di Rigore di Diego Kriščák. Involontario perché vota la sua battaglia per la vita in un'unica rigorosa abitudine: nascondersi entro le mure avite ammirando l'infinito mare dalla costiera triestina, dove non si sa se inizi o finisca l'Adriatico. Vive solitario accanto al grammofono su cui girano in un moto perpetuo i suoi numerosi dischi e sotto le cure della badante matriosca slava che supplisce alla mancata protezione materna: lo chiama ova moja zvezda (questa mia stella).

Senz'altro il K. sta per Kafka ovvero per l'antitetico di Kafka. Se il geniale intuito del Boemo intese l'esistenza come un contenitore di caos e grottesche allucinazioni dove persino le banalità quotidiane si trasformavano in sorprendenti assurdità, anche il K. di Kriščák si perde e si compiace del nulla e dell'angoscia, ma si discosta per la ricerca e l'assuefazione del rigore che in lui significa puntualità ed estrema regolarità delle proprie manie: il diario in quaderni antracite e la musica. I due K. vanno a braccetto a “pensare al pensare” nella solitudine ma il K. moderno in antitesi a quello autentico ha un nemico mortale: il caso, l'illogicità.

Ciò lo porta all'aspirazione massima, l'opera assoluta che il K. moderno intende realizzare nel mentre il Kafka vero, come sappiamo, ha lasciato tante opere nel cassetto e quelle divulgate furono in buona parte incompiute.

L'opera assoluta è il centro della tenzone. Infatti un simile rigore non può che portare all'opera assoluta: un'opera filosofica-musical-matematica. E la musica gioca un altro ruolo importante anche se Jacob K. sa che non realizzerà mai il sogno di sua madre che lo voleva grande pianista, emulando le sue aspirazioni. Pare descritta la decadenza della Mittel Europa. Tale e quale l'esperienza, ancora una volta in senso inverso, del von Trotta di Joseph Roth, il galiziano ebreo di lingua tedesca, che in La Cripta dei Cappuccini, descrive il simulacro dell'inutilità asburgica o meglio il tramonto dell'idea di Europa centrale. Questi, al ritorno dalla guerra, trovò il pianoforte dove si esibiva sua madre ridotto senza le corde, al fine probabilmente di negare al figlio la possibilità di addestrarsi per superarla. Sono questi riflessi antitetici (la madre che impone la grandezza al figlio e la madre che gliela proibisce) dello specchio della Mittel Europa: Praga, città degli strambi e dei visionari, Vienna con la sindrome della sconfitta della Kakania, Trieste la vera capitale dei Balcani. Poi, si capisce l'antifona: Kriščák triestino ha origini slovacche, il paese indistinto, nascosto, timoroso di farsi avanti e alzare la voce. In Slovacchia spira un'aurea per il piacere della non scelta, del rinvio, della pace sociale e dello spirito.

L'opera assoluta ricorda tanto l'azione parallela di musiliana memoria. Ulrich (L'Uomo senza Qualità di Robert Musil) sembra possedere tutte le qualità per emergere nella vita: è un valente fisico e matematico. Invece si lascia travolgere dall'incertezza sul da fare, sulla morale e sulla religione e si trova senza interessi e volontà. Tale e quale la sua Kakania.

Anche lo psicoanalista, incaricato di peritare per conto del tribunale le capacità psichiche di Jacob K. viene contagiato da questo sogno del “mondo oltre”. E al pari dell'opera assoluta anche l'ultima perizia, appunto come un'azione parallela, non avrà compimento e l'incarico non potrà essere rispettato come ogni decisione del secolo passato, quello che è iniziato con la distruzione del primo sogno di Europa Unita.

Non può che venire da Trieste l'avverarsi di questo ennesimo destino di decadenza. Il mare di fronte alla vetrata sulla costiera della casa di Jacob K, rimane senza narrazione come una sentenza sospesa ad libitum, per il non decidere, non fare, non essere: a Trieste nasce o finisce il mare? Jacob K. è matto o è savio? La risposta merita la lettura di Rigore di Diego Kriščák.

Lorenzo de Giusti

 

 

l'idea dell'individuo alla ricerca della produzione dell'opera assoluta non è nuova: la si ritrova anche in uno dei maggiori scrittori del XX secolo, Thomas Bernhard. In questo magnifico libro, però, la tensione è portata all'estremo. nei dialoghi di Jakob emerge l'ansia dell'individuo di fronte all'abisso: una tensione emotiva continua, una mancanza di aria che fa arrancare l'individuo alla ricerca disperata della sopravvivenza, fino a renderlo, inevitabilmente, un soccombente.

Bruno Cavalleri 

note personali, una guida alla lettura

 

Al di là della semplice narrazione di quello che avviene in Rigore e che la sinossi esaurisce in poche essenziali righe, ci sono aspetti che andrebbero presi in considerazioni e analizzati.

 

Il primo di questi è la tematica del dualismo, o del doppio. La tematica del doppio compare costantemente nelle pagine di Rigore, a volte mascherata e confusa, come traspare dal rapporto tra lo psichiatra e Jakob, con una schizofrenica confusione di ruoli, che si manifesta con evidenza soltanto nella parte finale:

Dalla bocca di Jakob K. le parole escono come sputate e prendono vita appena all’esterno. Si trasformano in una densa spuma ovattata e filiforme che cresce e si diffonde nella stanza fino a coprire come un velo di nebbia il pianoforte, la libreria e tutto il resto...

Jakob K. mi sta osservando attentamente e io non capisco se sia distante oppure minuscolo. Un essere minuscolo che osserva le mie reazioni con una lente d’ingrandimento gigantesca che stringe tra le mani con difficoltà... 

a volte molto più palese, come i riferimenti all’immobilismo inteso come fonte vitale e all’antitetica azione, che può condurre alla morte:

Gli oggetti che mi circondano, questa stanza, come si può vedere, trasuda del loro respiro, mi sopravvivranno proprio perché la loro fissità, la loro immobilità è sinonimo di vita... 

La vita non è dinamica. Non c'è vita nel cambiamento, ma soltanto uno stato ingannevole di pseudovita che si può definire in tutta tranquillità stato di premorte. È nella staticità, nel respiro regolare, che la vita persiste... 

Il riferimento al dualismo viene ulteriormente reso evidente proprio nelle parole finali dello scritto:

Non c'è il rischio di venire risucchiati da tale moto pendolare, venirne inglobati e trovarsi di fronte a una strada senza uscita, stretti nel mezzo? L’opera assoluta, ovvero la compiutezza dell’individuo. Nessuna spinta verso una direzione o l’altra, ma un totale immobilismo che, solo, si accompagna alla consapevolezza che può condurre alle stelle.

 

Uno dei punti cardine di Rigore è il riferimento alla musica, non soltanto, come risulta ovvio, in base allo sviluppo della vicenda, ma anche come possibile guida all’ascolto dell’eventuale colonna sonora che potrebbe accompagnare la sua lettura:

I miei occhi scendono sulla sua mano. Muove le dita sorridendo divertito dal ritmico tamburellare che accompagna lo scherzo della nona sinfonia di Bruckner...

o ancora:

perciò le imporrò l’ascolto dell’ultimo movimento della terza sinfonia di Mahler, nella versione diretta da Simon Rattle con l’orchestra di Birmingham, la versione che meglio riesce a cogliere il mio stato d’animo di quegli ultimi istanti viennesi...

o ancora:

la porta spalancata e lei appoggiata al cuscino con gli occhi assenti, mentre io seduto al pianoforte nel salone accanto ripeto un'altra volta ancora l'opera 64 di Skrjabin, la sonata n.7 per pianoforte, la cosiddetta Messa bianca. E la suono e la risuono e a ogni mia interruzione, a ogni mia pausa, un gesto di stizza da parte sua. Lei avrebbe voluto che la suonassi in eterno. Si avvinghiava alla Messa bianca con il terrore che la fine di questa avesse potuto coincidere con la fine della sua vita...

 

Altra caratteristica di questo lavoro è l’utilizzo della descrizione del sogno, che compare per tre volte, due direttamente dalla voce di Jakob K.:

Avevo sognato e il sogno doveva essere annotato scrupolosamente...

Il sogno, che adesso proverò a ricostruire e a buttare sulla carta, prima che sparisca del tutto o muti, come spesso accade, in qualcos’altro, ha agito su di me come un monito ed è per questo che adesso mi trovo o credo di trovarmi in questo assurdo stato di totale confusione mentale...

La mia vita, la notte, raramente è collegabile a quella che trascorro alla vetrata, alla mia vita di riflessione. La mia vita notturna, quella che vivo disteso a letto, è del tutto indipendente, e i miei sogni, o come succede più spesso, i miei incubi, mi vedono impegnato in parti da protagonista, perlopiù in fuga. Molto spesso nei sogni io fuggo. L'uso delle gambe, quindi, la notte è fondamentale. Il mio cervello, in questi deliri notturni, riesce a far muovere quelle parti del mio corpo che io so bene, sono peraltro del tutto inutilizzabili. Le mie fughe notturne sono pervase da sensi d'angoscia che raramente lasciano scampo...

La terza, verso la fine, vissuta dal perito del Tribunale:

Sono ora accovacciato al centro di un’altra stanza, quest’ultima è morbida e completamente bianca. Mi rotolo e poi mi tiro su e poi comincio a saltellare, prima su una gamba. Poi sull’altra. Poi a piedi pari e poi vorrei poterlo fare anche sulle mani. E ci provo e il mondo visto da sotto in su non è granché diverso. In questo morbido bianco tutto rimane immutabile...

 

C’è evidentemente una stretta relazione tra i due personaggi, al punto che il monologo finale del perito sembra quasi uscito dalla bocca di Jakob e viene allora da chiedersi chi sia l’uno e chi sia l’altro. Ovviamente questo è un altro naturale riferimento al concetto del doppio e alla ricomposizione dell’individuo scisso.

 

Anche i due esergi all’inizio del libro si collegano ai temi dell’isolamento e dell’immobilismo come fonte di sopravvivenza:

Ich bin der Welt abhanden gekommen […] Ich leb allein in meinem Himmel In meinem Lieben in meinem Lied.

e ancora:

And laugh—but smile no more.

 

Entrambi i testi conducono a una sorta di isolamento autoimposto e se nel primo il riferimento musicale al lied di Gustav Mahler è palese (Sono morto al tumulto del mondo, E riposo in un posto tranquillo! Vivo solo nel mio paradiso, Nel mio amore, nel mio canto!), nel secondo, la poesia di Poe porta inevitabilmente al collegamento con la Caduta della casa Usher e all’impossibilità, per Usher, di abbandonarla, perché, come dice Usher: la casa sono io e io sono la casa.

 

Il mio è inevitabilmente un tributo alla letteratura mitteleuropea del novecento. È difficile, del resto, per un autore triestino uscire da una simile forma mentale, ciò è evidente anche nello stile. L’utilizzo di lunghi monologhi e lo schivare i dialoghi mi permette di penetrare fin dentro, nel profondo, dove si annida quella che alcuni chiamano anima e altri più semplicemente definiscono coscienza. I periodi lunghi, a volte senza punteggiatura, spesso intervallati a frasi molto brevi, riescono a dare un senso compiuto ai flussi di frasi sconnesse e di parole a prima vista senza senso alcuno, ma in realtà molto lucide, di una lucidità talmente prepotente da risultare inizialmente deliranti.