Lettura morta! Gli ultimi giorni di peste

Era la malattia dell'uomo, la mia malattia. Niente usciva con prepotenza, Era tutto circoscritto dentro al cervello che si guardava bene dall'accettare l'ipotesi di violente reazioni.

Avevo vissuto per anni circondato da quest'atmosfera gelatinosa che mi avvinghiava e mi costringeva e tutti, vedevo, respiravano in quei giorni a fatica, tutti si crogiolavano nell'autocommiserazione e tutti aborrivano la violenza, perché tutti credevano nella giustizia divina e accettavano la comodità del delegare.

Gualtiero Giorgini legge Gli ultimi giorni di peste

i fantasmi che credevo...

decisi di passeggiare...

morte?.. peste?.. 

in ufficio mi stiracchio...

era cominciato tutto...

c'era mio padre con me...

recensioni

 

La prima impressione, leggendo il libro di Kriščák, fu quella di una straordinaria coincidenza, quasi che l’autore fosse riuscito a scrivere in tempo reale ciò che dominava le pagine dei giornali e le prime notizie dei telegiornali.
Ma fu solo una prima impressione. La seconda mi condusse con il pensiero alla morte nera di Edgar Allan Poe, un testo impressionante, letto da ragazzo e rimasto per sempre impresso nella mia memoria.
Ma la “Lettura morta”, me ne accorsi dopo un po’, non c’entrava né con il covid né con l’intelligente terrore suscitato dal tormentato scrittore americano. Ricordava piuttosto Dostoevskij, in particolare quello delle Memorie dal sottosuolo, dove si è condotti a contemplare non ciò che è al di fuori di noi e dal di fuori potrebbe spaventarci, ma ciò che è nel più profondo di noi stessi, là dove nessuno può penetrare fino in fondo. E’ lo spazio sacro della coscienza e la peste invisibile ma reale che lo abita è la profonda contraddizione tra un desiderio ancestrale di felicità e la sua (quai) impossibile realizzazione. “Voler essere disperatamente sé stessi, sapendo di non poter mai riuscire in tale impresa…”, come forse avrebbe commentato il filosofo Soren Kierkegaard.
Un simile presupposto potrebbe far pensare a un libro pesante, pessimista, oscuro. Niente di tutto questo, al contrario si tratta di un romanzo avvincente che aiuta il lettore nella nobile arte della ricerca inesauribile di una verità (rigorosamente con la v minuscola) che, come scriveva Eugenio Montale, è sempre “più in là” dell’orizzonte della conoscenza razionale.
Infine, nell’apparente angoscia del protagonista, si svela all’attento lettore la luce della speranza. La vera speranza non consiste nell’ottimistica irrazionale certezza che, come si diceva nel marzo del 2020, “andrà tutto bene”, ma nella decisione di continuare a vivere, investendo tutte le proprie energie nel condividere fraternità e solidarietà con un’umanità in cammino, accomunati dalla bellezza e dalla fatica dell’avventura della Vita.

Andrea Bellavite

estratto

C'era da parte mia, in quei momenti, un rigurgito, lo chiamavo così allora, un rigurgito d'umanità. Avevo degli strani compagni notturni che sempre più spesso venivano a farmi visita, forse le allucinazioni stesse (non avrei saputo altrimenti come chiamarle) altro non erano se uno dei segni fondamentali del mio non voler ancora rinunciare del tutto al significato di un'immagine. All'immagine di Teresa e all'assurdità di tutti quei cadaveri che ogni giorno passavano davanti ai miei occhi trasportati dagli addetti alla raccolta. Del resto il lento procedere dei giorni non concedeva tregua. Preso nel vortice come tutti mi trovavo a rincorrere quei compagni notturni sempre più freneticamente. Non mi avrebbe dato molta gioia lasciare che queste allucinazioni poi mi prendessero la mano. Io intendevo mantenermi lucido e sopravvivere. Non potevo permettermi di perdere il contatto con la realtà, che era poi la realtà della peste e la realtà dei militari che ci osservavano dall'alto delle loro torrette, pronti a falciare ogni minimo tentativo di fuga. C’erano moltissime sensazioni che navigavano insistentemente tra la mia testa e il tavolino. Talvolta ne afferravo qualcuna hop!… al volo. La studiavo ben bene e la riponevo delicatamente al suo posto. Mi interessavano moltissimo, mi affascinavano viste così da vicino. Pure non sempre erano piacevoli da toccare e a volte erano talmente viscide e gelatinose da ricordare l'inconsistente muco della putrefazione. Altre volte invece possedevano la rocciosa solidità della chiarezza o la secca e desertica smania di vendetta. Tutta roba mia comunque e anche se le dita che le afferravano si imbevevano del fetore della putrefazione oppure bruciavano al contatto, non riuscivo a spaventarmi.

 

note personali, una guida alla lettura

Quando, più di vent’anni fa, mi apprestavo a scrivere Lettura morta!, era mia intenzione dar forma, attraverso il mezzo narrativo, a una possibile chiave di lettura dell’elaborazione del lutto. A questo scopo, l’utilizzo dell’espediente della peste mi era sembrato forse il mezzo più adatto, anche se va tenuto ben presente che, a differenza di altri testi che in passato avevano sviluppato questo tema, il mio lavoro non identificava nessun oggetto esterno come portatore del morbo, non c’erano ratti o virus che agivano dal di fuori infettando le loro vittime. La malattia era dentro di noi. Ce la portavamo a passeggio fin dalla nascita. Soggiornava nelle tasche dei nostri cappotti, riposava ben pasciuta al caldo, pronta a esplodere. Eravamo noi i portatori, eravamo noi al tempo stesso vittime e carnefici. Dipendeva tutto da noi. La nostra tenace resistenza veniva costruita giorno dopo giorno e allo stesso modo la nostra debolezza poteva crescere esponenzialmente e deflagrare rompendo gli argini nel preciso istante in cui, in un momento di disattenzione, abbandonavamo le nostre difese. Nel mio lavoro avevo voluto suddividere i tre momenti che Freud nei suoi studi identificava con i termini di distacco, diniego e accettazione, in tre fasi narrative ben precise, anche se non sempre la divisione appariva così netta. 

Molto spesso, infatti, nel testo si assiste a una sorta di compenetrazione tra le fasi, a volte il distacco entra di prepotenza nel diniego, che a sua volta ruba tempo e spazio all’accettazione, andando a creare una sorta di caotico, ma forse più sicuro, procedere.

Nel mio lavoro, l’unica difesa possibile sembrava quindi essere la cancellazione della memoria, perché il ricordo era deleterio e costituiva il primo passo verso il contagio. A questo punto qualsiasi idealizzazione, qualsiasi traccia di debolezza avrebbe potuto rivelarsi fatale. 

Il morbo avrebbe dovuto rappresentare, secondo le mie intenzioni, la minaccia sempre presente legata alla scomparsa dei nostri punti fermi. Intendo con ciò tutto quello che in qualche maniera ci rende umani. Il ricordo, quindi, inteso come veicolo principale verso l’autodistruzione. Chi entrava nella spirale della memoria e da questa si faceva coinvolgere era decisamente un soggetto a rischio. L’unico mezzo che ci permetteva di sopravvivere era la sua totale cancellazione. Una sorta di vita vissuta giorno dopo giorno senza particolari sussulti e ovviamente senza alcuna traccia d’amore, senza alcuna traccia d’odio. Un’umanità immersa in un paludoso grigiore di fondo, deleterio ma salvifico. Era vivere, questo? Aveva un suo senso, una sua logica?

A più di vent’anni di distanza, nel presentare la riscrittura di questo lavoro, mi chiedo se questo testo, che originariamente scaturiva da una riflessione sul nostro rapporto con la morte, con la vita e con la memoria, possa essere letto in chiave presente e proprio alla luce di quanto vissuto durante la pandemia, come un’intuizione profetica di una cupa prospettiva di vita prossima alla realtà.